L’OCCASIONE (LA SCUSA) DEL MEDITARE

Arrampicavo le fasi della notte lungo sequenze alterne, immaginando che la linea imprecisa della strada potesse trovare, prima o poi, focalizzazione e senso. Luminescenze di lampade stradali, oscillanti ed opache, evanescevano all’orlo del marciapiede. Lievi vapori di foschie indistinte ondeggiavano a mezz’altezza tra i muri ed il vuoto. M’inoltravo lungo il tracciato alternando dentro me curiosità e timore, i vestiti umidificati dall’oscurità, l’orizzonte dello sguardo vagamente nebbioso, i pensieri in disordine sparso senza che mi riuscisse d’innestarli in un qualche concetto ben determinato.

L’ombra di lei si formalizzò sulla prospettiva sfuggente della salita, immagino uscendo senza preavviso da un vicolo laterale. L’idea della luna la avvolse e ne vestì il contorno senza definirlo appieno, colature di immaginario creavano alone ai suoi passi, di poco più avanti ai miei lungo il crinale. Gli ultimi bagliori dei neon s’attutirono e spensero sulle insegne, mentre un viaggiare di luminosità scarna, fasci di fari incerti e lontani, indugiò per un momento a mezz’aria sopra di noi ed infine s’arrese dietro la sommità della strada, di là.

Non provavo alcuna fretta di raggiungerla, solamente l’istinto poco urgente di scoprirne l’identità, le fattezze, e forse svelare il senso del suo anomalo incedere mi spinse ad accelerare, di poco, il passo. Echi di tacchi rifranti sull’asfalto, miei e suoi, allagavano il silenzio aggrappato all’attesa.

Non s’era ancora volta a me, nel suo andare cadenzato, ma in breve m’avvidi che il contorno del suo corpo si faceva via via più definito, segno che la celerità del suo procedere rallentava. Non m’affrettai, comunque, lasciai che fossero i nostri rispettivi ritmi disuguali, sincronici nella loro diversa lentezza lungo la sospensione della notte, a segnare il tempo dell’incontro.

Misuravo, allungando progressivamente lo sguardo, l’assottigliarsi della distanza fra di noi, senza provare vera impazienza d’attesa, danziamo come in un film al rallentatore d’altri tempi mi balenò nell’anima. Quasi avesse percepito il mio pensiero, l’ombra di lei rallentò ancora, l’ultimo passo fermò il cammino, m’approcciai quasi per inerzia cinematografica, ovvia, predeterminata nella sequenza dei fotogrammi. M’arrestai un soffio prima della sua schiena dritta, fasciata dal vestito nero, i capelli lunghi appena mossi al modo del fluire verso riva delle onde al tramonto, si confondevano nella stessa tinta della stoffa.

L’attesa colorò il proprio sapore, ipotesi d’orgasmo solitario.

Si volse, affondò il suo sguardo nel mio al termine di un’eternità d’incrocio. Non scorsi sorriso, neppure in parvenza, allo specchio delle nostre labbra.

“Flirtami”, sussurrò. E con lentezza quasi indolente ravviò i capelli dal mio e dal suo viso. M’affiancò, riprese a camminare con la cadenza di chi esegue un ordine voluto ma non amato. Puntai lo sguardo al culmine della strada, al punto esatto dal quale declinava verso altrove. Vi giungemmo in sincrono senza sversare parole sulla nostra malinconica empatia sottintesa.

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