(Io ricordo – estratto)

“Gli uomini non moriranno più. Ogni uomo: solo, unico, irripetibile”.
Il ricordo di parole scordate lo coccolò all’improvviso. Sole, vento, erba, orizzonte. Ed i fiori azzurri, il segno (il nome addirittura) del ricordo (io ricordo) e dell’inizio nuovo. Alzò lo sguardo, dovrei essere smarrito, spaurito, terrorizzato, e invece no, il contrario. Fuori dai miei confini, ma dentro un orizzonte che mi piace e mi fa bene. Lo guardò, azzardò l’ultima domanda: “Capita ogni tanto… ma da quando? Quando è iniziata questa storia? Quanti anni fa?”.
Quasi si pentì di averlo chiesto, solo quasi, mentre onde di reminiscenze di bimbo (o poco più) lo colmavano, immagini volanti di nonne inginocchiate che guardano in su, verso il cielo, verso un viso cui loro sorridevano, parole stranamente familiari (da che recessi d’anima?) sgorgate dall’orlo delle labbra e volate verso l’alto, la stanchezza si sciolse d’improvviso senza svanire. Una domanda, la mia, dalla soluzione così vicina da doverla evidentemente cercare in un giro lontano, se non l’ho vista camminare accanto a me ogni giorno, ed ho afferrato tutto tranne che lei. E adesso la porgo ad uno sconosciuto (sconosciuto?). Il sorriso della risposta si diluì nel flusso della brezza leggera, scivolò sui petali azzurri e sul loro nome (scelto e fissato proprio allora, in quel momento così particolare ed assoluto della piccola storia degli uomini, proprio in quel luogo scartato e secondario, e per questo basilare, proprio quella mattina anonima di un qualsiasi inizio di settimana), e giunse, misurato, a sfiorargli il viso, ancora pallido e freddo ma carezzato dall’erba nuova, mentre cercava con inutile fatica di rialzarsi e si arrendeva. Rimase ad ascoltare il breve fluire della voce, sempre leggera ed avvolgente, per un attimo indefinito e morbido, tempo fuori dal tempo. Riuscì a coglierne a malapena il sussurro, giusto quel tanto sufficiente a che le parole gli scendessero nell’anima, a rischiararla fino a colmarla, a placarne lo smarrimento con la loro illogica, assoluta assurdità tessuta in un altrove fatto presente.
“Quasi duemila…”.