5 luglio 2020 – Omaggio

Il respiro prima dell’ultimo giro di incontri stavolta fu brevissimo. Matematicamente giù fuori Belgio, Argentina, Austria e Spagna, restavano in otto per i quattro posti di semifinale. I bookmaker offrivano il Brasile stracciato 2 a 5, l’Italia buona solo per i sognatori 15 a 1. Continuava a fare un caldo assurdo in Spagna e dalle nostre parti. Il mio innamoramento diciottenne andava malissimo (come sempre quando non si è corrisposti) e per consolarmi leggevo per l’ennesima volta il capolavoro del Manzoni .
Chiusi il libro nel mezzo della peste meneghina del 1630 alle 17.05 di lunedì 5 luglio 1982 .
Crederci era bello, ancora per dieci minuti.
Dopo, una fetta dell’Italia (maggioranza assoluta larghissima) si rese conto di aver veleggiato molto molto in alto per 90’, dentro sfere emotive sconosciute . Dopo.
Durante, fu squassante, esaltante e devastante. A voler essere appena appena oggettivi, non c’erano speranze. Il Brasile era stellare, aveva innamorato tutti da subito. L’Italia piccolina, cresciuta giusto di un filo nella ripresa contro Maradona e compagni. Gli schemi e i piedi dei carioca funzionavano come il solito abusatissimo cronografo svizzero. I nostri balbettavano.
Ma crederci era bello. Ed incosciente. E l’incoscienza fu il terreno di coltura alle emozioni limpidissime di quell’incontro.

Gli strapiombi del Sarrià si pitturarono di gialloverde (brasiliani e, soprattutto, brasiliane) e di blu (italiani e, poche, italiane). Non di rado, come le immagini televisive prese da vicino e nel complessivo testimoniarono, le due tonalità si mescolarono, stettero, gioirono e si disperarono gomito a gomito, e non in senso metaforico, ma fisico. Ma nessuno, nessuno, ne ebbe anche solo un capello strappato, come le cronache si premurarono di riportare tra lo stupito ed il felice. Fu, credo, l’ultima volta che un incontro di calcio di quel livello e di quella tensione mise in scena il miracolo di due tifoserie caldissime ma affratellate. Il terreno fece da specchio alla tribuna: agonismo ma mai violenza, decisione ma lealtà. Tecnica e tattica in misure perfette da alchimista. Una combinazione astrale inimmaginabile ed ineguagliabile. Di tutte le sfide calcistiche cui ho assistito, la migliore in assoluto, quella che ricordo fin nelle sfumature . E che da allora, con la decadenza rovinosa del football, rimpiango e preservo come una reliquia.
Predicava Gianni Brera la necessità ineludibile di leggere ogni incontro di calcio sul piano tattico prima che su quello tecnico ed agonistico. Quella volta, col sudore a rivoli per il caldo e per l’orgasmo, riuscii nel miracolo di combinare istintivamente tutte le sfaccettature. I rispettivi piani strategici erano di per sé puerili. Di arrembare i verdeoro l’Italia non possedeva né mezzi né voglia. Viceversa, per i brasiliani difendere il pari (che li avrebbe portati in semifinale, non lo si dimentichi mai) sarebbe stata bestemmia vergognosa, e quindi impostarono, in nomi e schemi, la solita formazione d’attacco. Per gli azzurri, parata e risposta da copione, con Pablito confermato in centro all’attacco nonostante le quattro magre precedenti e contro il parere dell’universo mondo.

Per tre minuti le squadre si presero le misure senza sfiorarsi. Il Brasile, già ne aveva offerto qualche saggio, faticava talora ad ingranare, e quindi osservava sospettoso gli azzurri stando sul chi vive. Al 4° un’inzuccata di Rossi da buona posizione sballò malamente la porta. Sul rovesciamento, Oriali prese palla davanti alla nostra difesa e appoggiò sulla mediana – baricentro destro – per Conti, che da quella posizione faceva il regista aggiunto. Le telecamere spagnole indugiarono sul suo surplace impedendoci così di cogliere Cabrini che si fiondava lungo la fascia mancina come suo costume; quel che vedemmo fu quindi la morbida parabola che per 40 metri tracciava il binario al pallone, appunto da Conti a Cabrini, il quale dopo abilissimo stop alzò lo sguardo e corresse quasi al volo la traiettoria verso il cuore dell’area brasiliana. Tre secondi in tutto. Dal bordo destro dello schermo TV irruppe Paolo Rossi da Prato, libero come un fringuello di bosco, che in mezzo alle statue della difesa giunse puntualissimo a incapocciare, dritto nell’angolo a destra del marmoreo Valdir Perez, il goal della sua resurrezione. Geometria perfetta, mani al cielo, urlaccio, mia nonna già col patema per un potenziale infarto (mio). E sognare, a 85’ dal termine, diventava dolce.
Sì OK, tutto bellissimo, ma chi lo sapeva gestire ora quel vantaggio per un tempo così sterminato? La domanda, senza risposta, si specchiava nel lucido degli occhiali neri impenetrabili di Bearzot, impietosamente colto dalla regia a boccheggiare stile trota nella camera di tortura della sua panchina. Il Brasile, ovviamente, non si scompose. Sapeva fin troppo bene di essere privo di portiere serio e con una difesa allegramente composta da mancati centrocampisti e come tale sempre sbilanciata in avanti. Lo sapeva e, conseguentemente, pensava ad attaccare per farne uno in più di quelli che prendeva. Provò a sfondare al centro utilizzando Serginho, ma Collovati gli stava due spanne sopra. Allora, e correva appena il 12°, diede carta bianca ai suoi geni. Falcao, trequarti destra, toccò per Socrates. Sponda istantanea di Zico in limite d’area, triangolo conseguente sullo stesso Socrates che da 7 metri fulminò Zoff mettendolo a sedere e piazzando la palla a fil di palo in diagonale da destra. La difesa? E provateci voi a fermare gli artisti ispirati. A 78’ dal termine non si sognava più.

Cominciò a quel punto una situazione strana e particolare. Il Brasile, come nei precedenti incontri, continuò a pressare per chiudere in fretta i conti, ma di entrare nell’area azzurra non se ne parlava. Pensò allora di prenderla da lontano, affidando a Junior, Oscar e Leandro – linea, più o meno, difensiva – il compito di costruire per vie arretrate, possibilmente attirando i nostri centrocampisti per poi folgorarli sul veloce. Ma in questo ben piano tattico non si erano accorti (casi della vita…) che Pablito Paolo Rossi da Prato era improvvisamente tornato il genio d’Argentina. E neppure noi ce n’eravamo resi conto, al di là del goal. Nessuno, per la verità. Fino al 24’. Quando sfondò per la seconda volta il lato destro del teleschermo, artigliò di rapina la palla che vagava per linee orizzontali sulla trequarti tra Junior e Leandro (appunto), li lasciò sul posto, persi tra la sorpresa e la velocità doppia innescata dal centravanti azzurro, toccò la linea magica dell’area e – per dirla con De Gregori – tirò senza guardare sul palo vicino. Valdir Perez si tuffò solo pro forma.
Sul 2-1 cominciammo a farci venire la bocca buona mescolata a tachicardia incipiente, nonostante mancasse ben un tempo e mezzo al triplice fischio di Klein. Era la prima volta in quel torneo che il Brasile tornava sotto dopo aver impattato lo svantaggio iniziale. Freud ci si sarebbe divertito con lo sguardo smarrito di Falcao e compagnia. Lo shock durò tutto il resto della prima frazione. Durante il quale solo Eder ci provò, sparando punizioni e sventole da fuori area, non di rado in corsa, col suo sinistro abnorme. Senza esito, salva una traversa appena scheggiata. Al 35° Collovati si svirgolò una caviglia, e picchiando in terra il pugno per il disappunto fu costretto a lasciare. E qui Bearzot si dimostrò davvero immenso conoscitore di calcio e di uomini. S’era portato nei 22, per motivi ai più ignoti, un ragazzino diciottenne lombardo di maglia nerazzurra a nome Bergomi, e lo buttò nella mischia più difficile che si possa immaginare, lui che gettoni azzurri non ne vantava e di partite in serie A poche da piangere. Coi suoi baffetti, buoni a sviare i dati dell’anagrafe, il Beppe si piazzò su Serginho e lo cancellò. Il tempo si chiuse. Gentile s’era divertito a far uscire matto Zico, Conti e Antognoni giganteggiavano in mediana. E Rossi – ah, genio e follia italica – aveva conseguito a pieni voti la tessera del ristretto club di chi può vantare una doppietta nella porta del Brasile.

A mia nonna s’era intanto aggiunta una zia, sempre per controllare sottotraccia l’evoluzione della mia psiche. Il caldo, in Spagna ed in Italia, era a quel punto simile al caramello fuso. Ed anche per questo sognare era dolcissimo.
Dei primi 26 minuti della ripresa ricordo la voce sempre più concitata e strozzata di Nando Martellini, che probabilmente in quel momento avrebbe lavorato anche gratis alla faccia dello sciopero; le urla sempre più alte di Zoff per richiamare all’ordine la difesa; lo sguardo sempre più folle di Falcao sulle rimesse laterali (dove si beccava il primo piano dal cameraman in lungolinea) e di Eder sui corner (calciati sempre previa distruzione dei cartelli pubblicitari). E la bocca, traccheggiante semiaperta e sempre più impastata di Bearzot, implacabile bersaglio degli iberici in regia.
Non sapeva più che fare, il grande Brasile, in un crescendo emotivo da morire, e noi, noi sì che ora ci credevamo, noi sì che si poteva urlare Italia Italia con orgoglio, senza barricate, al cospetto di una tattica perfetta, il cuore al top, la miscela di tutti gli elementi dell’impresa dosata alla perfezione. Noi sì che….
Noi sì che ci rimanemmo come i cretini, al vedere Falcao, smarcatissimo, cincischiare sulla linea della nostra area di rigore (ma che ci faceva così avanti???), tutto spostato a destra, alzare gli occhi, accorgersi di un minimo spostamento di Scirea in centro area, minimo ma bastante a liberargli il canale diagonale verso la porta, e tutti alla TV lo vedemmo istantaneamente, e ci fu dato il tempo infinitesimale per gridare NO!, noi che di Falcao avevamo imparato, in due anni di serie A, ad apprezzare anche la balistica. E il divino fece due passettini, e il suo destro riuscì bellissimo, dritto nell’angolo opposto a mezza altezza, ché Zoff poté solo allungarsi per niente, e poi saltare in piedi a sacramentare contro il buco che gli si era aperto davanti, mentre Falcao e soci perdevano ogni remora e aplomb, e correvano a far gesti quasi da gay fino in panchina.
E qualcuno dica che ci credeva ancora, a quel punto, coi sogni sfasciati per terra davanti a divani e poltrone. Un minuto più tardi Eder si trovò solissimo davanti a Zoff, lanciato in corsa di contropiede, ma si fece respingere dal Capitano la conclusione. Non c’erano proprio più motivi per crederci ancora, neanche a crearli dal nulla.

Correva il 29° quando i nostri, sul rovesciamento, conquistarono un corner. Batté Conti un parabolone senza sugo, spazzato di testa dai difensori. Sul limite d’area Tardelli si piegò goffamente per colpire in mezza girata volante di sinistro (1 probabilità su 1000 anche solo di azzeccare lo specchio della porta, figuriamoci mettere dentro), e svirgolò vergognosamente. Ma la dea che presiede il calcio prese per mano la sfera trottoloide, la fece scivolare tra cento gambe, e la approdò appena prima dell’area piccola. E qui, criminalmente lasciato solo dai difensori, follemente ispirato dal genio dei rapinatori, Paolo Rossi da Prato si piegò sulla gamba sinistra, e col collo pieno della destra colpì, colpì il pallone e colpì la rete dietro le spalle del solito Valdir Perez immobile, colpì il cuore dei tifosi brasiliani e colpì la nostra mente ed anima con un lampo folgorante, e in una frazione di secondo ficcò dentro il 3-2. Ebbe l’ardire, un carioca, di alzare il braccio a chiedere l’offside. Ma il suo sguardo incrociò quello del proprio portiere, che gli fece sapere, telepaticamente, che era proprio lui a tenere in gioco tutti quanti, stando dritto a due passi dal palo.
A 15’ dalla fine il sogno tornò a materializzarsi, dopo essere apparso e svanito tre volte come la chimera. Ora no, ora non più, pensammo tutti. Ora una partita così si può e deve solo vincere, e mentre ce lo ripetevamo a vicenda tipo mantra coi rivoli di sudore sulla fronte, sapevamo benissimo che si poteva giocare dieci volte contro quel Brasile, e sempre avremmo perso, ma quel giorno no.
E i carioca tornarono all’attacco, urlando di rabbia e paura, con furia. Bearzot si ritrovò Tardelli sfasciato e lo sostituì con la roccia Marini a far muro sulla trequarti, con le buone o con le cattive, a scelta. Gentile aumentò le cure su Zico e venne bollato di giallo. Fu arrembaggio.
35°: da morire, quando l’epos prende alla gola e porta via. Antognoni lanciò al bacio Rossi, e Rossi fuggì, entrò in area, tirò da dieci metri e sbagliò la porta.
38°: rotto l’assedio dei brasiliani, toccò a Conti lanciare Rossi, e Rossi fuggì di nuovo, e nel cuore dell’area si preparò al 4-2. Junior, da dietro, lo mise orizzontale. Ma Klein, peraltro ottimo arbitro, voleva evidentemente godersi l’epos pure lui, e non fischiò, rubando un rigore sacrosanto.
41°: Oriali in area verdeoro, sulla destra, e non tira, e perché non tira ci chiediamo, passa ad Antognoni che di piatto mette dentro. Goal. 4-2. Ed io che cado sulle ginocchia, e mia nonna che salta in piedi terrificata, e Klein vile che annulla per un fuorigioco da geometri finissimi, vituperato in bella maniera anche da quell’uomo equilibratissimo che rispondeva al nome di Nando Martellini.

Tre occasioni così, e ti viene l’angoscia, il groppo in gola, il terrore che il destino stia per accoltellarti alla schiena dopo averti illuso alla grande e crudelmente. La follia era nell’aria, quella che, mi si perdoni, solo lo sport a questi livelli ed in questa combinazione di eventi sa mettere in scena. Al 46° il Brasile conquistò una punizione sulla trequarti, vertice sinistro dell’area di rigore. Nessuno, Martellini in testa, respirava più. Eder, con la bava alla bocca, calciò dritto e teso, e tagliò fuori magistralmente tutti i saltatori azzurri. Come una feroce e inumana replica del primo goal di Pablito, Oscar arrivò in corsa da destra, sfondando il bordo del televisore, e da 6-7 metri inzuccò a schiacciare con la violenza della disperazione e la tecnica del grandissimo (quale era). Il cuore si fermò istantaneamente (forse meno). A 40 anni compiuti, Zoff fece un balzo prodigioso, vide la traiettoria del pallone un istante (forse meno) prima del fatale, lo artigliò in volo, lo portò a terra mentre cadeva dal tuffo. Gli sfuggì, passò sotto il guanto sinistro, ballonzolò verso la linea di porta, cioè del goal del pareggio definitivo. Ma il guanto destro fermò la palla tre (forse meno) centimetri prima. Invano le mani carioca scattarono in aria a chiedere una rete inesistente. Invano i campionissimi geniali si lanciarono nell’ultimo assalto, esaurito con un gioco pericoloso in piena area ai danni di Cabrini.
Invano tutto. Italia – Brasile 3-2, Italia in semifinale, Brasile fuori. Bookmaker in lacrime , mezza nazione italica in piazza a far follie di ogni tipo, a guardare in faccia la vita dura e a gioire (impazzire è più corretto) per il nulla, un pezzo di cuoio pieno di aria che cambia i colori del mondo.
Difficile, quasi impossibile far ordine nel guazzabuglio della memoria e delle emozioni per distillarne un minimo di razionalità. L’Italia vinse tatticamente, sfruttando l’arroganza sottotraccia del Brasile, che ci concesse troppi varchi quando poteva vivere di rendita sul pareggio. Ma anche a livello individuale gli azzurri brillarono. Il centrocampo in particolare seppe far da elastico alla grande, coprendo benissimo la difesa (Tardelli e Oriali) e imbeccando con regolarità e precisione le punte (Conti e Antognoni). Sulla difesa, solo lodi da versare a piene mani, e senza macchie di violenza.
Ma, su tutti, il folletto Paolo Rossi da Prato, morto e sepolto nel calcio scommesse, riesumato da Bearzot tra le polemiche, vituperato da critica e popolo per quattro comparsate (dalla Polonia all’Argentina) impalpabili e umilianti, e incredibilmente riesploso a gloria assoluta con una tripletta di spessore tecnico enorme. Italia Italia per la nostra follia, per scordare l’inflazione al 20%, per inventarsi e trovarsi in un sogno pulitissimo fatto di tasselli che vanno tutti al loro posto senza sbavature di sorta, dentro una realtà che – lo si avvertiva sulla pelle – era già leggenda mentre la vivevamo. Una di quella combinazioni astrali che, quando va di lusso, si avverano una sola volta nella vita (sennò zero), e toccava proprio a noi!
La mattina dopo, già alle ottoemmezza era impossibile trovare una copia della Gazzetta, e ripiegai sull’Adige dove Carlo Giordani evocò addirittura la letteratura classica (Guicciardini) per celebrare l’accaduto .

(un estratto di un ricordo più lungo, un omaggio a Pablito, che oggi è stato convocato su un altro campo…)